giovedì 18 aprile 2013

Lo spettatore di fronte al film: riconoscimento e identificazione


Il cinema è si considerato un'arte, la settima, ma non appena lo si prende in considerazione come mass-medium e come fenomeno sociale si nasconde totalmente la situazione estetica vissuta da ogni spettatore. E quello che viene nascosto è proprio l'essenziale. Sappiamo sempre di essere in una poltrona a contemplare uno spettacolo immaginario: viviamo il cinema in uno stato di doppia coscienza; ma non lo percepiamo, non lo analizziamo. Il cinema è forse realtà, ma è anche qualcos'altro, che produce emozioni, sogni. Il cinema è niente senza i suoi spettatori. 
Quando guardiamo un film, seguendo gli attori, entriamo nella finzione. Per poco che le poltrone siano comode, il sonoro comprensibile, noi dimentichiamo la nostra situazione presente, ci sentiamo vicini all'eroe, al centro dei pericoli o dei piaceri. L'identificazione con un personaggio, un gruppo, una comunità, è caratteristica della relazione stabilita dal fruitore con un qualsiasi sistema di finzione. E' chiaro che ci è difficile seguire un film se non ci viene messo qualcosa che ci riguarda. Lo spettatore, quindi, risulta implicato due volte nella proiezione. Prima da quella parte di interessi personali che introduce nel film, cioè l'identificazione; poi dal fatto che è testimone dello spettacolo: non c'è film senza un probabile spettatore. La comprensione del racconto ci appare come un'operazione di classificazione. 
Per la maggior parte degli osservatori, l'identificazione agisce dallo schermo verso il pubblico; gli spettatori rivivono su se stessi ciò che vedono, si mettono al posto dei personaggi. Identificare equivale, quindi, a dare un'identità e poi ad interpretare le sensazioni derivanti da questa identità. 
Casetti dà un'esaustiva definizione dello spettatore: 

E' un piccolo nodo tra l'intoppo e il garbuglio. In fondo è così che si presenta lo spettatore, a ripassare il filo dei diversi discorsi sul cinema, la spia di possibili contrasti più che un referente sicuro, il frammento di un puzzle più che un disegno completo, insomma una figura un poco cifrata anche là dove se ne manovrano i contorni.

S'intravede una frattura, una linea di confine. Ovvero, da un lato si pensa allo spettatore come a un decodificatore, qualcuno che deve e che sa decifrare un gruppo di immagini e di suoni, un visitatore attento che passo passo recupera il senso della rappresentazione, uno snodo che al termine del circuito riporta in chiaro i segnali cifrati. Dall'altro lato, si pensa allo spettatore come ad un interlocutore, qualcuno cui indirizzare delle proposte e da cui attendere un cenno d'intesa; un complice sottile di quello che appare sullo schermo. La prima figura s'impone intorno agli anni Sessanta, nell'ambito dello strutturalismo. E' il decodificatore che si afferma come una presenza precisa oppure marginale. Ci troviamo, insomma, alle prese con una sorta di servo di scena, che pur facendo parte della compagnia è esterno alla recita. I tentativi di uscire da questa situazione iniziano a partire dagli anni Settanta.
Con il mutare del profilo dello spettatore muta, di conseguenza, anche il modo d'intendere la sua presenza: se prima si pensava a qualcuno ai bordi della rappresentazione, un visitatore occasionale o un semplice utente, adesso si pensa a qualcuno chiamato ad annodare i fili della trama. Un vero beneficiario, visto che è per lui che s'intreccia la tela. Dunque non abbiamo più a che fare con un bersaglio messo lì per essere centrato, ma un partner cosciente. 
Con il mutare del profilo dello spettatore, muta contemporaneamente il modo d'intendere il suo intervento: se prima si credeva che per affrontare le immagini e i suoni bastasse il possesso di un cifrario - ovvero un repertorio di segnali, di una lista di corrispondenze tra significati e significanti, di una tavola di possibili associazioni - adesso si crede necessaria anche una conoscenza in grado di padroneggiare l'intera situazione. Quindi ben lontano dallo scendere in campo disarmato e ben prima di offrire una reazione personale, chi siede in sala contribuisce attivamente a costruire ciò che appare sullo schermo: ad esempio, quando mette insieme indizi sparsi per ricomporre un carattere o per ricostruire un luogo; quando fornisce una cornice ai dati per mettere in chiaro il loro vero valore; quando ripercorre le linee del quadro per cogliere l'essenziale; quando riempie i buchi del racconto per restituire alla vicenda tutta la sua completezza. Dunque chi siede nelle sale cinematografiche vive con il film, anzi vive dentro il film. Lo spettatore, insomma, s'impegna a guardare: alla disponibilità del mondo sullo schermo risponde con una propria vocazione.

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